È stato troppo vasto (negli Stati Uniti) l’impatto culturale dei Grateful Dead, troppo preziosa la loro eredità musicale, troppo peculiare il loro modo di pensare e di agire per permettere che tutto questo svanisse insieme alla guida spirituale della band, Jerry Garcia (morto più di 26 anni fa, il 9 agosto del 1995). E infatti, sotto altre sembianze e altre sigle — The Other Ones, Dead, Furthur, più recentemente Dead & Company — i membri superstiti del gruppo, circondati da spiriti affini, ne hanno perpetuato il lascito continuando periodicamente a esibirsi dal vivo mentre sul mercato discografico escono ancora con inflessibile regolarità antiche registrazioni live curate dai loro archivisti e inaugurate con geniale lungimiranza nel lontano 1993 con il 1° volume della collana Dick’s Picks. Il più assiduo e convinto promotore di quest’opera di rigenerazione del patrimonio del gruppo è oggi Bob Weir (o Bobby, come preferisce farsi chiamare adesso), che di Garcia fu il delfino nonché la controparte vocale e chitarristica con una predilezione per il jazz, per il country & western e per il rock and roll di Chuck Berry e Buddy Holly; un vice frontman all’ombra di un personaggio inimitabile per carisma e sapienza musicale.
Bob Weir
Agli inizi Bobby era il kid hippie, belloccio e dall’aria trasognata; oggi è un vecchio saggio con il cappello e i baffoni da cowboy, la barba e i capelli bianchi che lo fanno assomigliare all’attore Bruce Dern. E con il suo maestro continua idealmente a dialogare senza cercare — compito impossibile — di imitarlo. Prendete questo Live In Colorado, registrato nel giugno dell’anno scorso, al ritorno sui palchi dopo il lockdown, in 2 scenografiche location, il Red Rocks Amphitheater di Morrison e il Gerald R. Ford Amphitheater di Vail: prima testimonianza discografica dei Wolf Bros, un trio con cui — in alternanza ai succitati Dead & Company (con la chitarra e la voce di John Mayer e i 2 batteristi dei Grateful, Bill Kreutzmann e Mickey Hart) — Bobby ha iniziato a proporsi dal vivo 4 anni fa insieme al batterista e collaboratore di lunga data Jay Lane e a quella vecchia volpe di Don Was, bassista, dirigente discografico alla Blue Note e produttore eccelso che vanta fra i suoi clienti più affezionati i Rolling Stones.
Un ensemble ridotto all’osso, ma qui rinforzato da innesti importanti: il pianoforte di Jeff Chimenti, altro partner in tante avventure (Dead & Company compresi); la pedal steel di Greg Leisz, maestro insuperato dello strumento e session man dall’agenda straboccante di impegni; nonché i Wolfpack, un inusitato quintetto con sax tenore, tromba, trombone, violino e violoncello in grado di eseguire arrangiamenti che all’antico repertorio conferiscono un colore inedito, più jazzy e quasi “cameristico”. Sono la carta in più che Weir si gioca con astuzia e moderazione, mentre la produzione di Was garantisce un suono ad alta fedeltà in cui le frequenze generate dal suo basso lineare e preciso rimbombano in dinamica contrapposizione ai toni cristallini delle chitarre e del piano. Peccato soltanto che non abbiano voluto pubblicare un concerto completo, perché gli 80 minuti circa di capienza di 1 Cd dimezzano sostanzialmente la durata dei loro show. Accontentiamoci (in attesa del 2° volume già annunciato) e godiamoci questo set virtuale in cui Weir ruggisce con convinzione al microfono (la voce non è mai stata il suo forte) e si muove da abile direttore d’orchestra, contrappuntando melodie e fughe solistiche con i fraseggi intuitivi, ondivaghi e irregolari della sua chitarra ritmica.
Jerry Garcia e Bob Weir, New York, 1972
© Peter Simon
Niente jam psichedeliche alla The Other One, stavolta, né tour de force come Playing In The Band: ma invece una scaletta tutt’altro che scontata, con canzoni anche poco conosciute, esecuzioni come sempre dilatate e un approccio molto easy, rilassato, che rende più elegante, felpato e rarefatto anche un ruvido shuffle blues come New Speedway Boogie, classico ripreso dall’ultra cinquantennale capolavoro Workingman’s Dead, dove era Ron “Pigpen” McKernan a cantarla con una voce ancora più sporca e ringhiosa. West L.A. Fadeway è l’altro pezzo a firma Jerry Garcia-Robert Hunter ripescato dal catalogo dei Grateful Dead: un brano degli anni 80 il cui criptico testo alcuni ritengono ispirato alla morte di John Belushi e che i Wolf Bros rallentano ad arte — una loro specialità — rendendo ancora più pigro il suo insinuante groove. 2 omaggi al grande American Songbook, 2 classici di Bob Dylan e Johnny Cash spesso frequentati in concerto dai Dead, completano la prima metà della sequenza: imbracciando una chitarra acustica, Bobby rilegge i presagi apocalittici di A Hard Rain’s A-Gonna Fall in chiave più meditativa e con toni meno pungenti, trasmettendo un senso di rassegnata ineluttabilità; mentre in Big River, storia di un affannoso e inutile inseguimento amoroso lungo le sponde del Mississippi, il ritmo Western swing apre la strada a trascinanti assoli che concedono a Leisz e a Chimenti una delle numerose occasioni per recitare un ruolo da protagonisti.
Nella seconda parte Weir si concentra invece sul suo repertorio, in gran parte firmato a 4 mani con il paroliere, poeta, saggista e attivista politico John Barlow (scomparso nel 2018): dal suo Lp in chiave country roots del 2016, Blue Mountain, riprende il brano più significativo, Only A River, scritto con Josh Ritter, liberamente ispirato al celeberrimo traditional Shenandoah e rivisitato con quelle sonorità liquide ed espanse che caratterizzano il sound di questa band; mentre My Brother Esau è, a sua volta, un pezzo per intenditori e profondi conoscitori della sua produzione: un’altra apocalisse in musica con un bel piglio rock/funky/blues nell’originale pubblicato nel 1987 come lato B del singolo Touch Of Grey; e che il tempo molto più slow e molto meno marcato di questa versione rende più sfuggente ed enigmatica. Prepara il terreno a un crowd pleaser come Looks Like Rain, forse la ballata più bella di Weir che nel 1972 la incluse nel suo 1° album solista Ace e che i Dead adottarono immediatamente (se ne contano, pare, oltre 400 esecuzioni dal vivo).
Grateful Dead, 1970
Come conservare freschezza a un pezzo così spesso rivisitato? Weir ci riesce infondendo feeling e brusca energia alla sua libera e imperfetta reinterpretazione vocale, mentre i compagni di band hanno una sensibilità più che sufficiente per lasciare un’impronta originale su una canzone dallo sviluppo melodico e armonico tutt’altro che banale, prima di lanciarsi in scioltezza nella medley finale tra 2 pezzi consequenziali nell’album Go To Heaven (1980) e spesso eseguiti assieme dal vivo: il mood jazzato e notturno di Lost Sailor che lentamente trasfigura nel groove di Saint Of Circumstance, visioni di arcobaleni e di stelle che si susseguono in un continuum fluido e avvolgente. Emerge ancora una volta la qualità dei Wolf Bros, “la band dal passo leggero”, alter ego della “band dal suono fragoroso” (i Dead & Company) con cui Weir divide oggi il suo tempo musicale: certo meno fedele al sound classico dei Grateful Dead ma persino più aderente al loro spirito, che aborriva formule e ripetizioni per inseguire una musica mutante e mai uguale a se stessa.