C’era un tempo da lupi, a New York, quel 6 ottobre del 1972. Un venerdì flagellato da un freddo penetrante e da una pioggia battente, che rendevano ancora più tetra e malinconica una metropoli dilaniata dalle disparità economiche e dalle tensioni razziali, mentre sull’America tutta incombeva ancora la cappa di quella maledetta guerra nel sud-est asiatico con il suo terribile carico di morti. Per quel motivo, quella sera dal palco della Carnegie Hall, Bill Withers non perse occasione di ringraziare ripetutamente chi era uscito di casa per venirlo ad ascoltare.

Bill Withers (1938-2020)

Ce lo ricordano i solchi di Live At Carnegie Hall, un doppio Lp (poi ristampato anche come singolo Cd) che la Sussex Records, piccola etichetta indipendente di Los Angeles, pubblicò circa 6 mesi dopo, il 21 aprile del 1973, abbellendo le registrazioni del concerto con sovraincisioni d’archi e di ottoni. Un falso storico, come spesso accadeva nei dischi dal vivo di quegli anni, che però non intacca e anzi a volte – bisogna ammetterlo – amplifica la bellezza cristallina di quello show che Bill e la sua band avevano messo a punto provando senza sosta la notte precedente, consci dell’importanza dell’evento. La tensione del momento è impercettibile alle orecchie: sciolto e loquace, Withers sembra esibirsi nel salotto di casa invece che in una delle più prestigiose sale da concerto del mondo, non fosse per la partecipazione calorosa e rumorosa degli spettatori rapiti fin dalle prime note, una Use Me da 8 minuti e ½ che finisce e riprende avvolgendoti come la tela di un ragno, la voce di “carta vetrata e velluto” del frontman (rubo la definizione a Bill DeMain del mensile Mojo) sostenuta dalla saltellante sezione ritmica, da una chitarra con effetto wah wah e da un riff insistente di clavinet.

Sarà che Bill era già un uomo maturo, allora. Esordiente solo l’anno prima alla bella età di 32 anni dopo aver lavorato a lungo come meccanico nell’aviazione civile, operaio specializzato nella costruzione delle toilette di bordo, telecamere di sorveglianza comprese, dei Boeing 747Se mai ne hai utilizzata una», dirà scherzando a un intervistatore durante un programma televisivo, «sappi che io ti ho visto»). Aveva pubblicato 2 stupendi album di studio, Just As I Am e Still Bill, facendo breccia nelle classifiche, nelle playlist delle radio e nell’immaginario collettivo con successi crossover ancora oggi ricordati e cantati da chiunque come Ain’t No Sunshine e Lean On Me: la prima, una canzone d’amore perduto che attingeva a temi melodici assimilati in Estremo Oriente durante il servizio di leva nella marina militare e che nel testo si ispirava al soggetto del film I giorni del vino e delle rose con Jack Lemmon e Lee Remick; la seconda, un gospel laico costruito su una elementare frase di pianoforte che diventava un inno immortale all’amicizia e alla solidarietà umana. Raccontano, entrambe, storie di tutti i giorni e sentimenti universali con la voce piana, calda, empatica e robusta di un uomo della porta accanto, un anti star figlio di un minatore di Slab Fork, West Virginia, che in età avanzata aveva scoperto dentro di sé «un poeta nascosto, sepolto nell’anima».

Il retro copertina di Bill Withers Live At Carnegie Hall

Oltre che nella voce, nelle parole e in quella chitarra acustica suonata con un drive ritmico trascinante, aveva un’arma segreta in un gruppo che lo seguiva a occhi chiusi e che alla Carnegie Hall presenta quasi subito al pubblico, fra i ritmi in crescendo di Friend Of Mine: erano gli amici fidati Benorce Blackmon all’elettrica, Melvin Dunlap al basso, James Gadson alla batteria e Ray Jackson al piano (suoi gli arrangiamenti d’archi e fiati aggiunti in postproduzione), affiancati quella sera dalla percussionista Bobbye Hall, veterana di session storiche alla Motown di Detroit e con la Wrecking Crew di Los Angeles che aveva partecipato alla registrazione in studio di Lean On Me (N° 1 nelle charts statunitensi, mentre Use Me aveva raggiunto il N° 2 e Ain’t No Sunshine aveva aperto di colpo a Withers le porte del Paradiso quando a sorpresa era stato invitato a eseguirla in tv al popolarissimo show di Johnny Carson).

Sono tutte applauditissime ed emozionanti ma non quanto Grandma’s Hands, preceduta da un lungo, ironico e affettuoso racconto che Bill fa di sua nonna, angelo custode che lui stesso, da bambino, accompagnava ogni domenica in chiesa: quel tenero pezzo autobiografico diventa il momento più magico e toccante della performance insieme a I Can’t Write Left-Handed, pianoforte, chitarra elettrica e coro sussurrato sullo sfondo di un gospel blues che evoca il conflitto vietnamita in chiave personale e non politica attraverso la storia straziante di un soldato che al fronte ha perso il braccio destro e che chiede aiuto a un collega per scrivere una lettera alla madre: 6 minuti e 44 secondi di brividi e di pathos alle stelle. Superbo nel comunicare con testi e melodie stringate, Withers è un maestro della ballad sentimentale, perfettamente credibile e coinvolgente quando invita ad aprire il cuore a dispetto delle delusioni subìte (la romantica Let Me In Your Life) e a recuperare vecchie amicizie superando i dissapori (il robusto blues di For My Friend); quando inneggia candidamente all’amore universale (Let Us Love), o augura miglior fortuna a una ex amante nella dolente Hope She’ll Be Happier (con quell’incipit memorabile: “Forse è l’ora tarda a farmi sembrare più triste di quel che sono”).

© David Redfern/Redferns

Ma Bill, nel 1972, è anche un uomo di provincia che si è sintonizzato sugli umori metropolitani e sul nuovo sound dell’America nera, artefice di pezzi dall’inconfondibile groove in cui basso, conga e batteria, piano e chitarra jazzy dialogano liberamente fra loro sullo sfondo di filosofici racconti di strada (World Keeps Going Around); di storie tragiche (il funk tenebroso di Better Off Dead, protagonista un alcolizzato che dopo essere stato abbandonato da moglie e figli medita il suicidio) e di alienazione urbana (Lonely Town, Lonely Street, con fiati r&b alla James Brown); vivaci e penetranti ritratti del ghetto come in quella Harlem popolata da ingordi proprietari immobiliari e da preti disonesti, dove la domenica mattina i nottambuli festaioli incrociano per strada i fedeli che si accingono ad andare a messa.

In un travolgente finale da 13 minuti e ½ Withers la lega a una reinterpretazione della Cold Bologna degli Isley Brothers reintitolata Cold Baloney, un’altra storia di sopravvivenza e di famiglie ai margini della società raccontata dalla prospettiva di un bimbo che impara presto a badare a se stesso e a cui il pubblico risponde in un tripudio di cori esultanti mentre il presentatore richiama Bill in scena per l’ultima volta. Non ci restano filmati da affiancare all’ascolto del Live At Carnegie Hall, ma è facile immaginare che fossero tutti in piedi a ballare, scatenati in un momento di catarsi collettiva fra le volte eleganti e le poltrone di velluto della Hall. E che uscendone, quella sera, in tanti si siano sentiti confortati e commossi, le guance bagnate da qualche lacrima e non solo dalle gocce di pioggia. Era il piccolo miracolo di un uomo venuto da lontano, un predicatore laico in stato di grazia che sapeva parlare al cuore di una città, di una nazione e di un mondo che di canzoni così avevano più che mai bisogno.

Bill Withers Live At Carnegie Hall (1973, Sussex Records)