«Tempi eccitanti», ricorda Christy Moore sul suo sito ufficiale a proposito del 1981 e del 1° album dei Moving Hearts, ambizioso e instabile progetto di folk rock elettrico che in quei primi anni del decennio scosse l’Irlanda e non solo. Tempi travagliati e tragici, anche, per la recrudescenza del conflitto nordirlandese e lo sciopero della fame dei detenuti dell’IRA, culminato proprio quell’anno con la morte di Bobby Sands e di altri 9 attivisti.

Chiuso il 1° e appassionante capitolo dei Planxty (il gruppo più iconico e importante dell’Irish folk revival dei ’70), Moore e il polistrumentista Dónal Lunny volevano irrobustire ed elettrificare il loro sound per far sentire ancora più forte e chiara la loro voce sui Troubles nordirlandesi, schierata senza mezzi termini dalla parte dell’esercito indipendentista; e sullo stato delle cose nel mondo occidentale con un nuovo trio in cui avrebbero coinvolto il chitarrista Declan Sinnott, cofondatore di quegli Horslips che prima di loro avevano attaccato gli strumenti alla spina. Divennero alla fine un settetto aperto a contributi esterni; una cooperativa in cui tutti, roadies compresi, si spartivano spese (molte) e guadagni (pochi) in maniera paritaria. I loro incendiari show al Baggot Inn di Dublino e in giro per l’Isola Verde divennero leggendari (“Sono una specie di Little Feat celtici”, scrisse di loro la rivista inglese Q) e l’attesa in patria per il loro omonimo album di debutto pubblicato da una major, la WEA Ireland, spasmodica: aspettative ben riposte, perché Moving Hearts fu allora un disco rivoluzionario, fresco, travolgente e impetuoso nei suoi inediti arrangiamenti musicali al servizio di testi politici e anti establishment.

Moving Hearts

Una miscela esplosiva di antico e moderno, con brani di ispirazione tradizionale e canzoni riprese per lo più dal repertorio di autori americani, famosi o misconosciuti: spiega bene il senso della loro innovativa fusion stilistica il corredo strumentale di Lunny, regista musicale del collettivo che si divideva tra bouzouki acustici ed elettrici e sintetizzatori usati con discrezione per colorare gli sfondi sonori. Il carisma, la voce calda e stentorea di Moore e il suo fedele bodhrán in pelle di capra erano un magnete per gli occhi e le orecchie degli ascoltatori, oltre che un faro per i compagni; i fraseggi chitarristici di Sinnott introducevano atmosfere westcoastiane, la sezione ritmica era dinamica e jazzy e l’altro asso nella manica erano i fitti dialoghi, i duelli fiammeggianti e le melodie suonate all’unisono dal sassofonista Keith Donald e da Davy Spillane, giovane asso (allora appena 22enne) delle uillean pipes, le piccole cornamuse irlandesi.

Introdotta da un veloce arpeggio della elettrica di Sinnott, la protest song antinucleare Hiroshima Nagasaki Russian Roulette era l’equivalente di una bomba atomica sonora: una corsa frenetica sul pentagramma in cui gli strumenti si inseguivano a velocità supersonica come se gli Hearts fossero una versione folk della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin; 4 minuti e 22 secondi mozzafiato che non davano scampo né tregua. Sarebbe diventata il loro 1° singolo e un momento irrinunciabile e catartico dei concerti. «Dopo avere ascoltato la loro versione, smisi praticamente di suonarla», ha raccontato l’autore del brano Jim Page, californiano trapiantato in Irlanda, responsabile anche di un altro pezzo il cui testo prendeva a bersaglio l’ingordigia dei proprietari immobiliari: Moore e compagni stravolsero completamente la sua Landlord ammorbidendone con cadenze quasi funk la melodia bluesata ma non il messaggio anticapitalista, coerentemente alla strada che avevano scelto di percorrere e che convinse Bill Whelan (poi diventato celebre grazie alle musiche del fortunatissimo spettacolo teatrale Riverdance) ad andarsene dopo una sola prova con la band per “divergenze politiche”.

All’allarme nucleare di Hiroshima si legavano concettualmente, in piena Guerra Fredda, l’ecologismo, l’idealismo e il grido d’allarme di Before The Deluge di Jackson Browne, capolavoro e pezzo conclusivo di Late For The Sky: Moore ne cantava il testo (“Fà che la musica ci sollevi l’umore/e che le nostre abitazioni tengano i nostri figli all’asciutto/che il creato continui a rivelare i suoi segreti/e che la luce persa dentro di noi raggiunga il cielo”) come se l’avesse scritto lui stesso, mentre in coda al brano l’ensemble strumentale si scatenava aprendosi a una sorta di jam che lasciava dietro di sé scie incandescenti. Aperti e cosmopoliti nel suono, i Moving Hearts non celavano mai l’orgoglio delle loro radici: celebravano gli eroi nazionali (il frenetico folk jazz strumentale McBrides era dedicato al politico Seán MacBride, Nobel per la pace nel 1974) così come la loro storia, i costumi e il passato del loro popolo soggiogato dagli invasori inglesi (l’incedere lento, solenne, malinconico e maestoso di Irish Ways And Irish Laws; “Gli spiriti dei santi e dei dotti” che “continueranno a ossessionarti in Paradiso e all’Inferno” nella bellissima Faithful Departed di Philip Chevron, chitarrista e cantautore di origine punk che qualche anno dopo sarebbe approdato nei Pogues).

Christy Moore

Gli altri 2 strumentali in scaletta – la danza irlandese jazzata di Category e la placida contemplazione di Lake Of Shadows, con il suo synth ronzante, i dolci arpeggi di chitarra e la lirica linea melodica perfetta per un documentario naturalistico – erano 2 oasi di sosta e di refrigerio prima del gran finale di No Time For Love, un altro prestito (stavolta da parte del folksinger newyorkese Jack Warshaw) e un altro tuffo nella canzone di protesta internazionalista che nel testo citava Boston e Chicago, Saigon e Santiago, Varsavia e Belfast, Sacco e Vanzetti e i rivoluzionari irlandesi James Connolly e Patrick Pearse per arrivare fino a Bobby Sands. il cerchio si chiudeva con un inno alla dissidenza e alla libertà, un grido contro l’oppressione destinato all’immortalità in questa versione veemente, convulsa e ricca di passione con un Moore in trance agonistica e un altro intreccio strumentale inebriante.

Le cose sarebbero cambiate presto: desideroso di seguire la sua Musa e di scrivere e interpretare le sue canzoni, il frontman se ne andò dopo 1 solo altro album, mentre il resto del gruppo avrebbe tenuto duro fino a metà decennio raggiungendo il massimo successo con lo strumentale The Storm prima di riunirsi in formazione rimaneggiata (e sempre senza Moore) nel 2007. Non poteva durare a lungo, quella meravigliosa sbornia (Lunny: «Essere nei Moving Hearts, almeno nei primi 2 anni della loro esistenza, era come essere trascinati per strada da un bus a tutta velocità»), ma quel 1° disco lasciò un’eredità importantissima, e non è un caso che Christy, Dónal e Declan siano rimasti amici e continuino tuttora a collaborare. Quel che il loro vecchio amico Page diceva a proposito dei Planxty, valeva a maggior ragione per loro: i Moving Hearts erano i Rolling Stones della musica irlandese.

Moving Hearts (1981, WEA Ireland)