Negli ultimi mesi del 2007 Robert Plant ha rischiato la schizofrenìa, lo sdoppiamento di personalità, il conflitto di interessi. Raising Sand, l’album di cover in coppia con la star del bluegrass americano Alison Krauss pubblicato il 23 ottobre di quell’anno; e la reunion dei Led Zeppelin del 10 dicembre alla O2 Arena di Londra, sono quanto di più distante si potrebbe immaginare: 1 disco in punta di piedi e uno show roboante, 1 Cd uscito con poca fanfara e un concerto circondato da una frenesia mediatica senza precedenti. A quale dei 2 eventi il cantante delle Midlands inglesi tenesse di più e si sentisse più vicino, lo ha dimostrato con il tempo.

Il suo amore (una volta tanto platonico) per la Krauss risaliva ad anni addietro. In una notte d’estate del 2001, tornando in auto da un concerto, Plant era all’ascolto di un programma radiofonico condotto dal suo amico Bob Harris, storica voce della BBC. «Misi su un pezzo di Alison Krauss e fu la prima volta che la ascoltò», ha poi raccontato lo stesso “Whispering Bob” a Paul Rees, autore della biografia A Life. «Si trovava nel mezzo della campagna in una bella notte d’estate. Alzò il volume della radio, uscì dall’auto e restò in piedi sotto le stelle ad ascoltare Alison cantare. Robert mi ha descritto quel momento come se stesse sentendo una voce proveniente da un altro pianeta».

Alison Krauss e Robert Plant

A metterli fisicamente in contatto è Bill Flanagan, famoso ex giornalista che lavora per l’emittente musicale VH1 e che in un programma del canale CMT Crossroads fa incontrare cantanti rock e country, ma ci vogliono anni prima che i 2 si ritrovino per la prima volta insieme su un palco a Cleveland in occasione di un concerto tributo a Leadbelly.

Poi entra in gioco il 3° uomo: un musicista-produttore-motivatore-visionario cresciuto alla corte di Bob Dylan ai tempi della Rolling Thunder Revue, ex componente della Alpha Band, cantautore in proprio, collaboratore di Elvis Costello e curatore di colonne sonore assurto a fama mondiale grazie all’imprevisto successo della soundtrack country/gospel/bluegrass/old time music di O Brother, Where Art Thou? (Fratello, dove sei?) a cui la stessa Krauss aveva partecipato alimentando la scintilla accesa nella testa di Plant. È T Bone Burnett a dirigere le operazioni quando i 2 cominciano a saggiare le acque e registrano a Nashville; e a seguirli quando poi le session si concludono a Los Angeles e a Hollywood.

È ancora lui a portare in studio il suo fidato team di musicisti sapienti dal tocco antico e postmoderno, roots e jazzato: Marc Ribot che incrocia le sue inconfondibili chitarre con quelle dello stesso Burnett, il magico Greg Leisz alla pedal steel, Dennis Crouch al contrabbasso, Jay Bellerose alla batteria e Patrick Warren alle tastiere, rinforzati dal violino struggente e vivace della stessa Krauss, dall’acustica del grande Norman Blake, dal banjo e dal dobro, dall’organo a mantice e dall’autoharp. È lui a scegliere un repertorio di canzoni avvolte nell’oscurità «che si ritrova nel bluegrass e nelle murder ballads come nella voce e nella vita di Plant. Alison lo capisce, e Robert ha lavorato duro per tirarla fuori», affrontando il rock and roll dal versante hillbilly battuto tanti anni prima da Elvis Presley e da Jerry Lee Lewis.

Ed è sempre lui a scovare il suono giusto, diventato nel tempo un marchio di fabbrica: un suono vintage e rugginoso, in bianco e nero come lo scatto di copertina. Un suono che evoca gli Appalachi e i Sun Studios di Memphis; la New Orleans degli anni 50 e 60 e le canzoni che si ascoltavano allora sulle vecchie radio in radica. Che sa di legno e di acciaio, di corde pizzicate e di dita che scivolano sulle tastiere, immerso in riverberi spettrali e notturni.

E poi ci sono loro, i 2 protagonisti, che mai prima di allora si erano tanto avventurati al di fuori della loro comfort zone: Alison abbraccia entusiasta un repertorio che esula dal country più tradizionale; Robert tiene a bada la voce cercandone le sfumature più profonde e delicate, imparando con umiltà i segreti del canto a più voci e facendo, se necessario, un passo indietro. Quando le canzoni lo richiedono, anzi, Plant & Krauss alternativamente scompaiono lasciando la scena all’altro: senza virtuosismi, senza gorgheggi inutili, senza sfoggio, senza pompa, senza glamour. Uno straordinario esercizio di misura e di understatement in quasi 1 ora di musica che privilegia i tempi lenti e i toni smorzati. E che anche quando alza il ritmo e i volumi procede sempre con passo felpato, agile ed elegante. A cominciare da Rich Woman, un fantastico voodoo rockabilly scandito da chitarre sature, tremolanti e in phasing (tipiche di Burnett come di Ribot) e da percussioni sorde e primitive, ripescato dai meandri della New Orleans del 1955 e da una vecchia incisione di Li’l Millet and His Creoles poi ripresa anche dai Canned Heat e dai Fabulous Thunderbirds.

Quelle vibrazioni, quei ritmi primordiali e quello swing spingono e animano anche l’irresistibile Gone Gone Gone (Done Moved On) degli Everly Brothers (quasi impossibile non muovere le anche schioccando le dita) e Fortune Teller, un altro classico della Crescent City firmato da Allen Toussaint già nel 1° repertorio dei Rolling Stones e degli Who, ma qui rallentato e rivisitato in chiave onirica, con un aspro solo di chitarra, Plant che mugola come ai bei tempi e Alison che risponde con un controcanto da ammaliante sirena. È la sola Krauss, invece, ad alleggerire sul finale i toni del disco con una versione “countrizzata” dell’r&b di Little Milton, Let Your Loss Be Your Lesson, mentre il perfetto harmony singing tra i 2 regala una nuova dimensione alla ballata country Stick With Me Baby di Mel Tillis e le atmosfere di Oh Brother… tornano in Your Long Journey, il sommesso inno a 2 voci ripreso dal repertorio del leggendario Doc Watson e della sua famiglia che chiude il disco con tono assorto e a luci ancora abbassate.

Fine interprete di cover mai scontate, come aveva dimostrato 5 anni prima nell’album Dreamland, Plant si tuffa nel canzoniere di 2 grandi, indimenticabili loser della musica americana da lui amati, portando per mano Alison nel loro mondo amaro e lunare, nel loro mal di vivere catartico e poetico. Tanto Polly Come Home che Through The Morning, Through the Night dell’ex Byrds Gene Clark, provengono dal suo omonimo 2° album del 1969 con il banjoista Doug Dillard: la prima lentissima, quasi sepolcrale e tutta giocata sulle basse frequenze, la seconda un valzer country con la lap steel di Leisz a piangere lacrime calde e confortanti.

Nothin’ del texano Townes Van Zandt (1971), invece, è come l’avrebbe potuta fare Nick Cave con i Bad Seeds: tagliente, minacciosa, distorsioni di chitarra e lamenti di violino; uno squarcio quasi speculare al tono morbido, accogliente e classicamente country di Killing The Blues, scritta dal chitarrista di Chris Isaak, Roly Salley, interpretata anche da John Prine, da Chris Smithers e da Shawn Colvin, che Robert e Alison sussurrano con soave dolcezza mescolando i loro timbri vocali inconfondibili, ginger e melassa.

Ma non è solo una lezione di storia, Raising Sand, che abbraccia anche scampoli di repertorio contemporaneo: Plant torna sui passi di Walking Into Clarksdale (1998), riprendendo da quel disco inciso in coppia con Jimmy Page il brano migliore, una Please Read The Letter che nel passaggio dal contesto elettrico a quello acustico guadagna parecchi punti grazie anche a un assolo di violino in sintonia con il senso di desiderio inappagato espresso dal testo. Sister Rosetta Goes Before Us è invece un gentile omaggio della moglie di Burnett, Sam Phillips, perfettamente nelle corde – vocali e strumentali – di Alison e in stile di sognante old time music; ed è ancora lei al microfono in Trampled Rose, emaciata ballata che smussa gli spigoli della versione pubblicata l’anno prima da Tom Waits con la moglie Kathleen Brennan nell’album Real Gone.

Non sembra proprio roba da classifica, né in grado di scaldare i cuori dei fan degli Zeppelin. Eppure succede l’inaspettato: premi come se piovesse (compresi ben 6 Grammy: 1 nel 2008 per il singolo Gone, Gone, Gone; addirittura 5 l’anno dopo, compresa la statuetta più ambita per l’album dell’anno), disco di platino negli Stati Uniti, oltre 2.000.000 di copie vendute nel mondo. Cambierà le sorti dell’etichetta indipendente che lo ha pubblicato, la Rounder, e rilancerà a dismisura le quotazioni di Plant, che dopo il concerto a Londra con Jimmy Page, John Paul Jones e Jason Bonham in onore di Ahmet Ertegun della Atlantic, non ci penserà due volte a chiudere per sempre la sua storia con il Dirigibile.

Certi piccoli miracoli sono difficili da ripetersi, e i primi tentativi di dare a Raising Sand un degno successore, anni fa, si sono infranti dopo una serie di session che hanno lasciato tutti insoddisfatti. Ma era solo questione di tempo, e prima Lucinda Williams (loro ospite in un pezzo di Pops Staples) e poi Greg Leisz, hanno fornito anticipazioni su un sequel che sembra ormai prossimo alla pubblicazione. Dalle montagne nebbiose del confine gallese dove è tornato a vivere dopo la sua parentesi americana, Plant non ha abbassato lo sguardo: il Delta del Mississippi, i monti Appalachi, Nashville, Memphis e New Orleans, a quanto pare, sono méta di un altro promettente viaggio in compagnia del suo biondo angelo custode dell’Illinois.

Robert Plant / Alison Krauss, Raising Sand (2007, Rounder Records)