Stax e Motown. Memphis e Detroit. Il soul torrido, ruvido e sensuale che arrivava dal profondo Sud degli Stati Uniti e dall’epicentro del rockabilly e del rock and roll; e quello scintillante, orchestrato e verniciato di pop prodotto nell’Upper Midwest industrializzato e nella città delle grandi case automobilistiche. Una dicotomìa storica, una rivalità innegabile (anche se nelle classifiche era sempre l’etichetta della Motor City a primeggiare), un modo diverso di concepire la musica, il rapporto con il pubblico e con l’ambiente circostante. Ma anche 2 percorsi paralleli iniziati quasi in contemporanea tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60 del secolo scorso, quando la comunità afroamericana alzava la voce e rivendicava il suo posto nella società.
Estelle Axton e Jim Stewart
Giusto 60 anni fa, nel 1961, uscivano i primi 45 giri su marchio Stax, nato dalla fusione delle prime 2 lettere dei cognomi dei fondatori e iniziali proprietari, Jim Stewart e la sorella Estelle Axton. Già 4 anni prima, in realtà, Stewart – un bancario di pelle bianca che suonava il violino, amava il country e il bluegrass e sapeva di non avere la stoffa dell’artista – aveva lanciato un’etichetta, la Satellite Records, reinventandosi discografico e produttore con la speranza di emulare le gesta e le fortune di Sam Phillips, qualche miglio più in là titolare degli studi e dell’etichetta Sun Records esplosi grazie a Elvis Presley e agli altri eroi del 1° rock and roll. Nel 1960, finanziato dalla sorella (pure lei impiegata di banca) converte un vecchio cinema in McLemore Avenue, alla periferia della città, in uno studio di registrazione; per procurarsi il denaro necessario a pagare l’affitto, Estelle allestisce nello stesso stabile un negozietto di dischi, il Satellite Record Shop, che diventa un punto d’incontro di musicisti e un utilissimo barometro per registrare umori e gusti del pubblico giovane.
La label reca lo stesso nome quando Rufus e Carla Thomas, padre e figlia, esordiscono con ‘Cause I Love You riscuotendo grande successo a livello locale e attirando le attenzioni di Jerry Wexler della Atlantic, la casa discografica newyorkese che ha già in scuderia Ray Charles e che in seguito lancerà Aretha Franklin, Solomon Burke e Wilson Pickett. Scaltro e risoluto, Wexler ci mette un attimo ad assicurarsi i diritti di prima opzione e di distribuzione del catalogo, mentre la minaccia di una causa da parte di un’omonima etichetta costringe Jim ed Estelle a cambiare logo e ragione sociale dopo che i nuovi singoli di Carla Thomas e dei Mar-Keys hanno varcato i confini nazionali.
Stewart non ha certo il senso affaristico di Berry Gordy Jr. della Motown. È schivo, un po’ grigio e impiegatizio ma non gli manca certo la “visione”. E mentre il boss afroamericano di Detroit realizza il sogno di portare il moderno sound della Black America sulle piste da ballo e alle orecchie dei giovani bianchi con voci, ritmi e arrangiamenti tendenti al pop, Stewart fa il percorso inverso: è un bianco che di rhythm & blues non sa nulla ma che a un certo punto si sente come «un cieco che improvvisamente ha riacquistato la vista», determinato a produrre e promuovere sonorità più autenticamente “nere” che attingono al gospel e al blues oltre che al country e alle prime forme di r&b.
Rufus Thomas
Come la “Hitsville” di Gordy, anche la sua è una impresa familiare e una piccola fabbrica: solo più artigianale, meno scientifica, meno disciplinata e gerarchicamente organizzata. Le fondamenta, però, sono simili: il nucleo è composto da un piccolo gruppo di produttori, autori e compositori – poi allargato a comprendere i più talentuosi e completi artisti del roster – e da una house band in cui si alternano più o meno sempre gli stessi musicisti, che lavorando sempre nello stesso piccolo studio e con le stesse apparecchiature assicurano ai prodotti che escono su etichette Stax e Volt un sound facilmente riconoscibile e personale.
Carla Thomas
Spesso affiancati da altri giovani autori e da musicisti quali i “Memphis Horns” Andrew Love e Wayne Jackson, i “big six” – gli autori e interpreti Isaac Hayes e David Porter, l’organista Booker T. Jones, il batterista Al Jackson, il chitarrista Steve Cropper e il bassista Donald “Duck” Dunn (altri 2 bianchi convertiti al soul) – sono il trait d’union, le menti che dirigono le operazioni lasciando spazio agli input creativi esterni nell’arco di session informali in cui ognuno porta le sue idee di arrangiamento senza che nulla finisca codificato in uno spartito, senza rigide divisioni di ruoli, senza un tempo di studio rigidamente scandito da orologi, contratti e sindacati di categoria. “Una famiglia chiusa su se stessa”, come racconterà il giornalista Peter Guralnick nell’imprescindibile Sweet Soul Music, “in cui Jim Stewart impersonava il ruolo del padre severo ma orgoglioso, Estelle era la madre affettuosa e Steve e Packy erano il figlio buono e quello cattivo”, ma in cui non c’è un Gordy a decidere tutto a tavolino.
Otis Redding
Una meravigliosa e rombante macchina della musica autogestita e a ciclo continuo, che sforna i groove irresistibili dei pezzi strumentali di Booker T. Jones & The MG’s, dei Mar-Keys e poi dei Bar-Kays e offre il perfetto contrappunto ad alcune delle più straordinarie voci in circolazione: con la sua verve e la sua irresistibile simpatia, Rufus Thomas diventa il campione del funk cittadino e di nuove mode danzerecce, la figlia Carla la dolce regina del Memphis Soul, William Bell un autore raffinato e un elegantissimo interprete di ballate, Sam & Dave (in prestito dalla Atlantic) il “dinamico duo” che incendia i palchi e lo studio di McLemore Avenue e Otis Redding – arrivato da Macon, Georgia, un giorno del 1962 come autista di Johnny Jenkins and the Pinetoppers e subito promosso sul campo – la più grande star della Stax e del Southern Soul in ascesa meteorica fino a quando, il 10 dicembre 1967, un tragico incidente aereo se lo porta via insieme a 2 membri dei Bar-Kays. Solo 6 mesi prima, una travolgente esibizione al Monterey Pop Festival aveva lasciato tutti a bocca aperta sdoganando definitivamente la più autentica “musica dell’anima” presso il pubblico bianco, stregato da album seducenti come Otis Blue e da canzoni che, come I’ve Been Loving You Too Long, Try A Little Tenderness e la postuma (Sittin’ On The) Dock Of The Bay, trascendevano ogni confine di razza e di stile.
Albert King
È l’altro sound della Black America, più ruvido e sanguigno, trascinante e struggente, votato alla spensieratezza e all’intrattenimento così come al commento sociale e alla presa di coscienza. I dischi della Stax sono anche la colonna sonora di quanto sta accadendo in USA e alla comunità afroamericana in quegli anni tumultuosi: l’”I Had A Dream” di Martin Luther King, che il 4 aprile 1968 viene ucciso proprio al Lorraine Motel di Memphis (un luogo d’incontro abituale per l’entourage dell’etichetta, e in cui Cropper ed Eddie Floyd avevano scritto la hit Knock On Wood), era risuonato forte e chiaro in una città ancora vittima di una rigidissima segregazione razziale, con ristoranti e luoghi di ritrovo separati, e in cui il piccolo quartier generale di McLemore Avenue rappresentava un’isola felice di integrazione; le sue battaglie per i diritti civili diventano la bandiera e il messaggio delle canzoni degli Staple Singers di Pops e Mavis Staples, gruppo gospel convertito alla musica secolare che dà lustro alla seconda ondata Stax assieme al grande bluesman Albert King con la sua chitarra a V, allo shouter Johnny Taylor (la sua Who’s Making Love diventa nel 1968 il singolo più venduto della Stax fino a quel momento) e ad Isaac Hayes, il “Mosè nero” che sbanca le classifiche con la colonna sonora di Shaft e anticipa il look sgargiante ed esagerato dei rapper con i suoi mantelli e i suoi cappucci, i suoi catenoni e le sue Cadillac dai cerchioni dorati.
Al Bell
Intanto nel 1965 era arrivato Al Bell, un combattivo ex dj dalla vista lunga e dal senso spregiudicato per gli affari che aveva spinto Estelle a uscire di scena e che con Jim aveva instaurato una precaria ma inizialmente fruttuosa convivenza. Un gran motivatore a metà tra il predicatore e il business man che nel giro di qualche anno assume pieni poteri e tiene a galla la Stax nonostante la morte di Redding, la cessazione del contratto di distribuzione con la Atlantic, la perdita dei diritti su gran parte del repertorio e la vendita della società al gruppo Gulf &Western. Una serie di colpi quasi mortali che spingono Bell a moltiplicare i ritmi produttivi per ricostruirsi un catalogo e che non gli impediscono di organizzare al Los Angeles Memorial Coliseum, il 20 agosto 1972, un megafestival intitolato Wattstax. La data prescelta coincide con il 30° compleanno dell’headliner Isaac Hayes e commemora a 7 anni di distanza i disordini razziali che nel 1965 avevano incendiato il quartiere ghetto di Watts: irretiti dal soul e dall’impetuoso stile oratorio del Reverendo Jesse Jackson ingaggiato come presentatore accorreranno in 112.000, quasi tutti afroamericani, a celebrare quella che passerà alla storia come la Woodstock nera.
Isaac Hayes al Wattstax
Ancora una volta, Stax è testimone e protagonista della storia. Bell ne vuole fare un impero culturale e non solo musicale, un faro e una fonte di ispirazione per la comunità black anche se la scelta di registrare anche in altri studi e con produttori esterni diluisce le caratteristiche più salienti e riconoscibili del sound. Come in ogni grande saga americana che si rispetti, non mancheranno i drammi e i litigi, le separazioni e gli “scazzi“, i cambi di distribuzione e un altro passaggio di proprietà (alla Fantasy, che tuttora possiede il marchio e che lo ha rilanciato di recente pubblicando nuovi dischi di Ben Harper con Charles Musselwhite, di Nathaniel Rateliff & The Night Sweats e del rientrante William Bell).
Arriverà anche il tempo dei gangster e delle pistole maneggiate con disinvoltura da Johnny Baylor, l’agente di sicurezza dai metodi spicci e brutali che in questa storia è indiscutibilmente il “cattivo” per antonomasia. E poi una montagna di debiti e una bancarotta a spegnere un sogno (afro)americano che si infrange lasciandosi dietro una galassia di schegge luminose, tanti 45 giri e qualche album memorabile.
Riascoltandoli oggi, e scavando dentro un catalogo che oltre ai classici dei ”big” offre tantissime altre perle a nome di artisti quali Mad Lads, Eddie Floyd, Mable John, Sir Mack Rice, Judy Clay, Ollie & The Nightingales, Jeannie & The Darlings, Soul Children, Emotions, Dramatics, Little Milton, i bianchi Delaney & Bonnie e tanti altri, ci si ritrova ancora a commuoversi, a scaldarsi il cuore e i muscoli, a ballare e a schioccare le dita come la mano stilizzata nel più celebre e indovinato logo della casa del Memphis soul.