Sarà la Band a prendere il posto lasciato vacante dai Beatles? Se lo chiedeva il critico musicale Robert Hilburn in un articolo pubblicato sul Los Angeles Times del 9 agosto 1970, anticipando di una settimana l’uscita nei negozi del 3° album del gruppo, Stage Fright, e riflettendo sul fatto che fino a quel momento i 5 musicisti nordamericani – 4 canadesi, 1 statunitense del Sud – non erano ancora riusciti a conquistare l’attenzione delle radio Top 40 AM che orientavano i gusti del mercato mainstream, ma solo quella del pubblico più “sofisticato” che si sintonizzava sulle frequenze delle nuove emittenti FM simpatizzanti dell’underground. Era un segnale indicativo, quel pezzo apparso su uno dei quotidiani più letti d’America, di quante aspettative Music From Big Pink e The Band avessero suscitato, inventando praticamente dal nulla un genere musicale che in seguito (molto in seguito) si sarebbe chiamato Americana: una controrivoluzione culturale che agli eccessi della psichedelìa reagiva con un ritorno a uno stile più autentico e austero, al linguaggio delle radici e della tradizione, evocando una immaginaria America dei pionieri attraverso una musica modernamente rétro e con quelle fotografie seppiate che ritraevano i musicisti come fossero dei predicatori battisti in posa davanti a un dagherrotipo.
The Band
Robbie Robertson, Richard Manuel, Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson
Lo possiamo rileggere oggi, quell’illuminante scritto di Hilburn, nel libretto incluso nella ristampa dell’album, che – con leggero ritardo sul suo 50° Anniversario – torna disponibile in molteplici formati: digitale, vinile (nero o colorato a tiratura limitata), doppio Cd e cofanetto super deluxe. Tutti i supporti riproducono il nuovo missaggio che lo specialista Bob Clearmountain ha realizzato mettendo mano ai nastri multitraccia originali con la supervisione di Robbie Robertson, deciso a restaurare la sequenza dei brani da lui originariamente concepita e poi modificata per «incoraggiare la partecipazione alla scrittura di Richard (Manuel) e di Levon (Helm)», nella convinzione che i suoi «fratelli della Band sarebbero d’accordo» (essendone scomparsi 3 su 4, non ne abbiamo purtroppo la controprova). E tutti – Lp escluso – contengono anche stuzzicanti materiali “bonus”: il box set include un Blu-ray con audio stereo ad alta risoluzione e mix Surround Sound 5.1, una riproduzione della stampa spagnola del 45 giri Time To Kill/The Shape I’m In nel nuovo missaggio stereo, 3 litografie e 1 ricchissimo booklet fotografico con nuove note bio-discografiche a cura di Robertson e del fotografo John Scheele, mentre anche il doppio Cd e le versioni digitali propongono alcune “field recordings” inedite catturate su nastro nel 1970 nella stanza di un hotel di Calgary durante una jam session notturna e improvvisata; e soprattutto un intero show dal vivo registrato su 4 piste nel giugno del 1971 alla Royal Albert Hall di Londra («Uno dei nostri migliori concerti di sempre», ricorda Robertson nelle note di copertina), nel corso di un trionfale tour europeo che ai 5 fece dimenticare i fischi che avevano salutato le loro “sacrileghe” esibizioni a fianco di Bob Dylan nel 1966.
Come tanti episodi nella vita romanzesca della Band, anche Stage Fright ha un retroscena interessante: per ringraziare la comunità di Woodstock che li ospitava e che aveva dovuto sopportare l’invasione di hippie e di curiosi innescata dal Festival tenutosi nel 1969 nella (relativamente) vicina Bethel, Robertson e compagni avevano pensato di organizzare, a titolo di risarcimento, una piccola esibizione a stretto uso e consumo dei locali con l’idea di registrarla in vista di un nuovo album. Temendo una nuova calata dei “barbari“, l’amministrazione comunale e i residenti (in gran parte pittori e scrittori amanti della privacy e della tranquillità) bocciarono la proposta inducendo il gruppo a mettere in atto un piano B: rinunciare al pubblico e registrare comunque un set di canzoni sul palco del piccolo teatro in legno in cui avevano scelto di esibirsi, il Woodstock Playhouse, così da sfruttare l’atmosfera particolare e la sonorità naturale di quell’antica sala per dare carattere al loro nuovo Lp: un disco con cui il gruppo si giocava una fetta importante del suo futuro, della sua reputazione e delle sue fortune commerciali. Le cose non andarono esattamente come previsto, forse perché Stage Fright non aveva la forza, la fervida ispirazione e il repertorio formidabile dei primi 2 dischi: resta un piccolo diamante grezzo e “minore” della discografia della Band, che pur iniziando a scricchiolare sfoderava anche in quella occasione uno stile inimitabile e imitatissimo.
Forse ha ragione Robertson nel sostenere che la nuova scaletta, completamente stravolta, è più efficace nel proiettare immediatamente l’ascoltatore nell’universo sonoro di Stage Fright e nello stato mentale in cui venne concepito: come un film di Martin Scorsese, e qualche anno prima di The Last Waltz, il disco è una parabola di amicizia virile e di perdizione; racconta la storia di 5 giovani uomini che stanno perdendo l’innocenza e il cameratismo dei vecchi tempi, quasi incapaci ormai di comunicare tra loro, sballottati da enormi aspettative e da un calendario impietoso di concerti, adulati e viziati da lacchè, businessmen e pusher che li ricoprono di soldi («Le royalty che ci arrivavano sotto forma di assegni finirono quasi per ucciderci», raccontò Rick Danko al giornalista Stephen Davis ) e di droga, soprattutto l’eroina di cui finiscono vittime lo stesso Danko, Manuel ed Helm («Era dappertutto. Come musicista non avevi modo di evitarla», ricorderà quest’ultimo nella sua autobiografia del 1993, This Wheel’s On Fire). The W.S. Walcott Medicine Show, che apre la nuova sequenza al ritmo sostenuto di un r&b fiatistico profumato di New Orleans, non è solo la rievocazione di quegli spettacoli itineranti che nel Vecchio West del 19° secolo mischiavano momenti di intrattenimento alla promessa di cure miracolose, ma anche la metafora fin troppo trasparente di quel che la Band stava diventando: un circo viaggiante, un gioco d’illusionismo che nascondeva profonde lacerazioni interiori.
La sintonia perduta si riflette anche nell’uso sempre meno frequente delle armonie vocali: le sovrapposizioni, i dialoghi e i botta e risposta tra Helm, Danko e Manuel – 3 delle voci più straordinarie, emozionanti ed espressive della storia del rock: tutte in un gruppo solo! – si diradano, e di molto, rispetto ai 2 Lp antecedenti, mentre è Robertson a manovrare il timone in termini di songwriting e direzione musicale. La sua firma compare in tutti i 10 pezzi, in 2 casi accanto a quella di Manuel, una sola volta con Helm («La mia teoria è che qualcuno ha dentro di sé una canzone soltanto, qualcuno ne ha 5 e altri ne hanno 100»); la sua chitarra dal fraseggio conciso, ritmico e vibrante come quello di papà Pops negli Staple Singers è una presenza costante e mai invadente in canzoni dove il rustico sound della Band si arricchisce di nuovi, brillanti colori grazie soprattutto alla maestrìa di Garth Hudson, mago barbuto e corpulento scatenato fra organo, piano elettrico, fisarmonica e sax tenore, mentre Manuel affida soprattutto all’assonnata malinconia da ore piccole di Sleeping la qualità incredibilmente struggente della sua voce e del suo pianoforte. Oltre che grandi vocalist, Danko e Helm si confermano una sezione ritmica straordinaria e sui generis, impossibile da replicare: il basso fretless di Rick scivola sul pentagramma ricavandone tonalità e sfumature melodiche sconosciute a tanti suoi colleghi; il drumming imprevedibile di Levon fa un uso dinamico e non convenzionale di piatti, cassa e rullante per rimescolare continuamente le carte, i tempi e le scansioni, concedendo “aria” alla musica e inventando groove strascicati, in controtempo e irresistibili.
I musicisti della Band sono 5 maestri che non fanno mai sfoggio di se stessi; e che succhiano linfa da ogni vena, acustica ed elettrica, dell’American Music – il gospel, il folk, il blues, il country rurale, il vaudeville, il rockabilly, il soul, ma anche i canti ecclesiastici, la musica bandistica per ottoni e quella da funerali – per nutrire una musica vitale e pulsante in cui gli elementi si fondono fino a diventare quasi indistinguibili: l’incalzante rock sudista di The Shape I’m In (con quell’organo a cui Hudson cambia continuamente intonazione) e il pathos febbrile che Danko mette nell’interpretazione di Stage Fright, di lì in poi irrinunciabili in concerto, raccontano molto di Robertson e della Band di quei tempi, dei loro mutamenti d’umore e di un’improvvisa paura del palcoscenico suscitata dal «sentirsi nudi nel mezzo di quel mostro che stavamo creando, una bestia che stava diventando quasi incontrollabile». Il meraviglioso folk al sapore di cajun di Daniel And The Sacred Harp, intanto, racconta in modo nuovo la classica parabola di chi in cambio del successo è disposto a vendere l’anima, mentre l’asciutto soul bianco di The Rumor, dove le 3 voci tornano ad avvicendarsi nel racconto, è un piccolo trattato moraleggiante sulla tossica incontrollabilità delle dicerie alimentate dal pettegolezzo e dalla maldicenza. Time To Kill, scelta come singolo di lancio, avverte dei pericoli in cui incorre chi si ritrova con troppo tempo libero da ammazzare: gli assoli pungenti di Robertson ne fanno il pezzo più rock and roll del disco assieme a Strawberry Wine, dove è Hudson a far correre le dita sui tasti della fisarmonica come si trattasse di una chitarra solista, mentre Just Another Whistle Stop è un boogie midtempo che riprende il tema del viaggio a tappe forzate e All La Glory un momento solenne di intimità domestica, un tenero inno con cui Robertson celebra la nascita della sua prima figlia.
© John Scheele
Bastano 12 giorni a registrare i 10 pezzi, ma non tutto fila liscio. Indeciso sul da farsi, il gruppo commissiona 2 diversi missaggi a Glyn Johns e a Todd Rundgren, tra Londra e New York: il 1° lanciatissimo dopo avere lavorato con Rolling Stones e Led Zeppelin, il 2° apprezzato da Robertson per la sua rapidità d’azione in sala d’incisione e per la capacità di regalare brillantezza al sound, ma dal carattere difficile e non proprio in sintonia con il resto del gruppo (in un’occasione Helm lo insegue per tutto lo studio determinato a prenderlo a calci nel sedere). L’album attingerà ad entrambi, tradendo un mood collettivo confuso e contraddittorio, un groviglio di tensioni e di incertezze assente da quelle divertite session notturne per voci, chitarra e armonica che il fotografo Scheele cattura con un magnetofono portatile e in cui Robertson, Danko e Manuel si divertono a rifare canzoni nuove e standard di Huey “Piano” Smith e di Bo Diddley. Del tutto impercettibile, soprattutto, nell’entusiasmante concerto londinese in cui i 5 volano davvero alti, lucidi e precisi; coesi, vocalmente e strumentalmente in palla come non mai tra i pezzi di Stage Fright, quelli dei primi 2 dischi (The Weight, I Shall Be Released, Up On Cripple Creek, The Night They Drove Old Dixie Down, Chest Fever, Rag Mama Rag, ma anche gioielli meno celebrati come King Harvest, una commovente Unfaithful Servant, un’impagabile Rockin’ Chair ) e un paio di cover dal catalogo Motown (Don’t Do It di Marvin Gaye, Loving You Is Sweeter Than Ever che Stevie Wonder scrisse per i Four Tops). Quella sera di quasi 50 anni fa, il sacro terrore del palco fece un altro piccolo miracolo.