La storia di Joan Armatrading inizia come una piccola favola: quella di una bimba di 7 anni che nei primi mesi del 1958 affronta tutta sola un viaggio aereo dall’isola caraibica di Antigua a Birmingham, la città delle Midlands industriali dove i suoi genitori (lui falegname, lei casalinga) si sono trasferiti 4 anni prima con i suoi 2 fratelli maggiori in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori. Meno di 20 anni dopo, nel 1976, esce un album che porta il suo nome; e quella ragazza dalla capigliatura afro e dalla pelle scura originaria della colonia di Saint Kitts diventa la prima artista britannica a raggiungere le posizioni di vertice delle classifiche con una raccolta di canzoni che portano la sua firma. Ci avevano già provato in tante: Sandy Denny, la first lady del folk rock che entrava e usciva dai Fairport Convention in cerca di stabilità e di una direzione; Lesley Duncan, amica e collaboratrice di Elton John; giovani e promettenti stelline quali Bridget St. John, pupilla di John Peel, o Claire Hamill, ingaggiata personalmente da Chris Blackwell nel roster della Island Records. Ma è lei la prima a riuscirci, puntualizzando di non essere «la prima cantautrice di pelle nera residente in Gran Bretagna ad avere raggiunto il successo internazionale, ma la prima donna in assoluto».  Anche per questo, e anche se politica e rivendicazioni sociali resteranno sempre distanti dal suo songwriting, diventa subito un simbolo delle femministe e dei movimenti che si battono per la parità dei sessi. Anni prima, ingaggiata nel cast di una produzione londinese del musical hippie Hair, aveva conosciuto un’altra giovane cantautrice di belle speranze, black e immigrata come lei, Pam Nestor, con cui si era messa a scrivere canzoni: un centinaio, addirittura, da cui – assistite in sala di incisione da Gus Dudgeon (una celebrità, dopo avere prodotto Space Oddity per David Bowie) – avevano scremato i 14 pezzi inclusi in Whatever’s For Us, pubblicato dalla indie Cube e intestato per volere dei discografici alla sola Joan. Quel disco, acerbo ma interessante, le frutta lodi e segnalazioni da parte delle riviste specializzate anche se qualcuno nell’ambiente non si fa scrupoli nell’esprimerle il suo pensiero: «Tra 5 anni nessuno si ricorderà di te».

Arrivano invece un contratto con la A&M, etichetta artist-friendly gestita da un famoso musicista (l’Herb Alpert dei Tijuana Brass e di A Taste Of Honey) e da un brillante businessman grande appassionato di musica (Jerry Moss); un 2°album promettente (Back To The Night, 1975) e la possibilità di farsi produrre un disco da Glyn Johns, quotatissimo fonico che vanta leggendari trascorsi in sala di incisione a fianco dei Rolling Stones degli inizi e dei Beatles di fine carriera; degli Small Faces e dei Traffic; dei Led Zeppelin e degli Who. Come Dudgeon, anche Glyn non sta su un piedestallo, è disposto ad ascoltare e sa come ottenere i suoni che l’artista ha in testa. Non che Joan abbia bisogno di una guida, d’altra parte: «Non vado mai in studio con l’idea di una canzone sperando che qualcun altro mi aiuti a realizzarla», spiegherà molti anni dopo al Financial Times. «Ci vado con la strofa, il ritornello, la variazione, il finale già pronti. E sapendo se ci deve essere un assolo di sassofono oppure no».

È proprio un voluttuoso e notturno assolo di sax alto suonato dal turnista Jimmy Jewell a incorniciare Love And Affection, un gioiello musicale in cui la voce baritonale dell’attore e cantante afroamericano Clarke Peters fa da contrappunto al suo canto capace di timbri delicati e cristallini e di tonalità mascoline. È una ballata semplice e romantica con un incipit magistrale (“Non sono innamorata/ma sono disposta a farmi convincere”), che entra al N° 10 delle charts inglesi, spinge l’album fino al N° 12 e si candida subito all’immortalità. Eppure non ha nulla di banale o di zuccheroso: la potenza, la duttilità, il calore e la profondità della voce di Joan; la sensualità della melodia, la finezza dell’arrangiamento e dell‘esecuzione strumentale la collocano subito su un piano nobile, su un livello superiore. Al 1° ascolto si capisce quanto la Armatrading sia dotata e soprattutto originale. Non è una delle tante epigone di Joni Mitchell che allora spuntavano come funghi («Quando ho iniziato a scrivere canzoni, lei non aveva ancora debuttato»); e se proprio bisogna trovarle un termine di paragone, l’unico plausibile è il Van Morrison di quel periodo: non tanto per similitudine stilistica, quanto per l’abilità nel giocare con le ripetizioni testuali e gli ad-lib; e per il modo altrettanto libero, fluido e creativo che Joan ha di fondere e personalizzare i generi musicali, intrecciando elettrico e acustico in un tessuto di sottili ma robusti fili strumentali creati con il contributo di grandi musicisti scelti con cura da Johns, che usa con sapienza le chitarre di Jerry Donahue e le percussioni di Dave Mattacks (2 Fairport Convention, di cui aveva prodotto l’anno prima Rising For The Moon), la batteria dell’ex Faces Kenny Jones, la steel di B.J. Cole, la slide e il mandolino del cantautore Bryn Haworth, la 12 corde di Graham Lyle (del duo scozzese Gallagher & Lyle), le tastiere di Peter Wood.

La sequenza delle canzoni, in un album, è cruciale; e Joan Armatrading, saggiamente, si apre e si chiude con altri 2 colpi da maestro, non a caso sopravvissuti fino ad oggi nelle scalette dei concerti: la ballata folk soul Down To Zero, in cui tra chitarre acustiche e pianoforte Joan si muove in libertà all’interno della strofa infischiandosene della metrica come farebbe Van The Man; e Tall In The Saddle, un blues felpato e avvolgente con un nitido e penetrante assolo di chitarra che sfocia in un break sincopato a tutto funk. Meno appariscente, anche il resto del disco imbriglia le orecchie, seduce e colpisce il bersaglio: dosi robuste di funk e di blues bilanciano anche Water With The Wine e le sfumature jazzate di Help Yourself; Save Me si apre a lievi, autunnali colori orchestrali; la fusion di Join The Boys autorizza la band a una breve ed esaltante jam session; People incorpora e rielabora i ritmi caraibici con cui gli immigrati giamaicani inondano in quei tempi i quartieri di Londra; Somebody Who Loves You accarezza le corde del folk pop più suadente e delicato; Like Fire si aggroviglia e si scioglie intorno ad accordi stoppati di chitarra e a sofisticati tempi dispari. Al centro di tutto, Joan, la Ovation acustica con cui si fa ritrarre in copertina e le sue canzoni sinuose, personalissime ma anche accattivanti, nonostante il rifiuto a ricercare la via più facile e scontata per raggiungere il pubblico. Senza modelli evidenti di riferimento, senza eroi musicali studiati ossessivamente sui dischi o alla radio, Armatrading scrive di getto e per necessità canzoni che osservano con acutezza il mondo delle emozioni e delle relazioni umane; non ci pensa affatto ad apparire aggraziata e a cantare in modo “carino” perché, come spiegherà un giorno al Guardian, «le donne nere non sono state istruite per apparire deboli e sottomesse. Devono sempre essere forti e agire».

L’anno dopo la pubblicazione di Joan Armatrading, Show Some Emotion (ancora con Johns alla console) ne replicherà le meraviglie, prima che To The Limit e il live Steppin’ Out chiudano quella prima fase di carriera; nel 1980 Me Myself I segnerà un deciso cambio di direzione e una robusta svolta elettrica, 3 anni dopo Drop The Pilot diventerà una hit internazionale mentre ancora oggi, pur scomparsa dai radar del grande pubblico, Joan è un’artista rispettata, risoluta e volitiva che passa in scioltezza dal blues al rock e al jazz, rivisitati con una trilogia di album tematici usciti tra il 2007 e il 2012. Quel magico, precario e finissimo equilibrio raggiunto con i suoi dischi della seconda metà dei 70s resta però irripetibile: un incanto di origine misteriosa a cui è bello continuare ad abbandonarsi.

Joan Armatrading (1976, A&M)