Questo vecchio appartamento al terzo piano di una vecchia casa non mi appartiene più. Per l’esattezza da quando i miei lo hanno lasciato. È dal momento in cui ci vivo soltanto io che non lo sento interamente mio. Sembra un paradosso, ma è così. Manca qualcosa che mi è appartenuta fintanto che essi lo hanno abitato. Via loro, è scomparsa anche una parte di casa. Si tratta di sensazioni che non riesco a definire in modo più accurato, che stanno al fondo di me in un luogo che non ho mai frequentato. Così, adesso, me ne sento padrone soltanto a metà. Penso che dovrò cambiare la sistemazione dei mobili, la destinazione delle stanze, il colore alle pareti. Spero che tutto ciò la induca ad appartenermi senza riserve.

Gli inquilini del palazzo, condomini o meno, hanno facce sempre nuove. A volte salutano. Quando lo fanno rispondo appena. Se li scorgo in attesa dell’ascensore mi blocco. Fingo di frugarmi nelle tasche in cerca di qualcosa che non troverò. Rientro in casa. Immobile dietro l’uscio, respiro piano. Premo l’orecchio sul legno. Li osservo dallo spioncino. Aspetto che l’ascensore li porti via. Il mattino esco prestissimo. È  raro che incontri gente. Capita, però, che ritardi. Basta una mezz’ora ed è fatta. Incrocio parecchie persone. In tali circostanze, se non riesco a fare marcia indietro o se non mi riesce di buttarmi sui gradini della scala, provo sempre una sgradevole impressione. È come un improvviso mancamento d’aria. Mi sento come se uscissi di casa dopo decenni di clausura e, di colpo, scoprissi che fuori tutto è cambiato. A cominciare dagli inquilini del palazzo, quelli che ci abitano da anni, che ho incontrato decine, centinaia di volte. I ragazzi di un tempo, che sono diventati adulti. Sconosciuti. Allora mi torna in mente il mio passato, i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Schegge di luce che esplodono come strilli infantili. Frantumi di antiche paure. Contratto sui gradini del terzo piano, spiavo le ragazze del quarto, un occhio alla mia porta socchiusa nel timore che mia madre mi scoprisse. Le ragazze del quarto giocavano sul pianerottolo. Nel lampo di un bianco nascosto strappavo gli sguardi altrove, bruciati e vergognosi. Le ragazze del quarto non ci sono più da un pezzo. Chissà dove sono adesso, che cosa fanno. Allora evitavo persino di salutarle. Ora che ci ripenso, sento dentro qualcosa che assomiglia a un senso di mancanza.

Da bambino fuggivo chiunque mi avvicinava. Riparavo tra le gambe di mia madre. Tuffavo il volto nell’ampia sottana nera, a pieghe, impregnata dell’odor di casa. Ciò bastava a farmi sentire al sicuro, relativamente al sicuro. Ma durava solo un istante, perché lei mi spingeva subito via come un cane molesto. Un’atroce timidezza mi ha accompagnato attraverso la vita senza mai perdermi di vista. Mi ha sempre proibito di mischiarmi naturalmente agli altri.

Porto gli occhiali fin da ragazzo. La miopia mi consente di osservare il mondo da una posizione in qualche modo protetta. Due vetri spessi riparano, almeno in parte, l’intera persona da eventuali attacchi esterni, comunque si presentino. Allorché un banale motivo, mettiamo la pulizia delle lenti, mi costringe a toglierli, è come se mi spogliassi di un prezioso indumento. Un fiato umido, lo sfregare del fazzoletto. Compio l’operazione a capo chino, di fretta, per limitare una sgradevole sensazione di vulnerabilità.

Sono molto stempiato. I capelli cominciarono a diradarsi prestissimo, sui vent’anni. Mi fece male poiché ci tenevo parecchio. Ricordo che spesi notevoli somme di denaro nell’acquisto di balsami e lozioni. A quello pensava mia madre la quale, stranamente, attribuiva grande importanza alla capigliatura. Non ne ho mai capito il perché. C’era un prodotto giapponese, allora, reclamizzato dappertutto, che garantiva risultati miracolosi. Il trattamento consisteva di violente frizioni ripetute più volte al giorno. Ci contavo su quella lozione verdastra che odorava di castagne lessate. Era forse per via del rispetto che allora nutrivo nei confronti della cultura giapponese. Adesso che li frequento regolarmente in campo commerciale, capisco che non sono diversi da noi.

Dapprincipio pareva che i capelli ricrescessero per davvero. Spuntavano fini come peli matti. I primi tempi perdevo delle mezz’ore ad ammirarli in controluce. Anche mia madre controllava la ricrescita. Mi passava delle brusche manate sulla testa e osservava la pelle del cranio da vicino, come si faceva una volta a scuola per controllare se avevi dei pidocchi. Poi la situazione precipitò insieme alle speranze di rinfoltimento. Fu per via di una causa intentata da un avvocato contro produttori e distributori del prodotto. Una causa che fece scalpore perché i giornali ne parlarono a lungo. All’analisi risultò che il preparato era privo di effetti terapeutici sul capello. Una frode, in altre parole. La società distributrice fu condannata e al prodotto venne interdetta la commercializzazione in Italia. Da quel momento i miei capelli cessarono di ricrescere e quei pochi che sembrava fossero spuntati caddero miseramente.

Godo nel distendere e carezzare la fronte col palmo aperto della mano destra. Su e giù, fino alla nuca. Alla robusta pressione la pelle del cranio si tende e prende a formicolare infondendomi un gradevole senso di vitalità. Un pesante cerchio cala spesso sui sopraccigli. Mi sorprende di solito in ufficio, verso sera. Anche il mattino al risveglio, ma è raro. Conosco però un buon sistema per debellarlo: stiro i muscoli del viso con forza, più volte. È una smorfia di tensione simile a un doloroso sorriso. Se ne va dopo i primi tentativi.

Mangio poco, tuttavia mi sento pesante. Stasera, per dire, la cena è composta da un uovo al burro e due mele. L’uovo al burro mi regala una specie di tenerezza. Non è strano, è per via che mi ricorda episodi dell’infanzia, quando mia madre mi costringeva a fare il chierichetto. Lei diceva sempre “cereghìn”, per dire chierichetto. E per dire uovo al burro diceva “uovo in cereghìn”. Cereghìn, in dialetto milanese, significa chierichetto. Ecco il motivo che mi dà tenerezza al vedere nel piatto un bell’uovo al burro, nonostante che allora c’era poco da provare tenerezza, almeno da parte mia.

Eppure mi pare d’ingrassare ogni giorno. Studio la mia figura davanti allo specchio. L’addome prominente, il petto molle rispecchiano una vecchiaia dietro la porta. Non mi piaccio. Chissà se gli altri mi vedono come mi vedo io? Forse qualcosa si può ancora fare. Muovermi. Devo camminare. Dicono faccia bene anche al sistema nervoso e alla circolazione del sangue. Bisogna piantarla di prendere tram e autobus. Farò delle sane trottate nel fresco del mattino. E alla sera, quando mi figuro di sgusciare rasente i muri inseguito dal flusso delle automobili con i fari accesi come sguardi impazziti di lupi affamati.

Stasera ho la bocca secca. Non faccio che scolare bicchieri di latte freddo. Prepariamoci a saltare su in piena notte e schizzare in bagno. Sento caldo dappertutto. Sono stravaccato in poltrona. Non seduto, né sdraiato. Proprio stravaccato. Nella solitudine della mia casa amo scompormi in assoluta libertà. Una gamba tesa poggia sul tavolino con il tallone. Sfiora il telefono. Un oggetto inutile. Nessuno mi telefona. Non possiedo un telefono cellulare. Sarebbe inutile. Nessuno mi telefona. Davanti ho il televisore dal grande schermo panoramico. Me lo rifilarono in azienda quasi di forza. Una partita di apparecchi ricevuta quale pagamento da un cliente in dissesto. È spento. Lo accendo soltanto a ragion veduta. I miei obiettivi sono sempre mirati. Qualche notiziario, solo quelli regionali e cittadini, rarissimi dibattiti, striminzite rubriche di libri. Niente spettacoli. Sono soltanto contenitori di sesso e trivialità. Anche il televisore presenta un suo alto grado di inutilità.

Il cono luminoso del paralume illumina il piede nudo. Pare esangue tanto è smorto. Alcune grosse vene divagano sottopelle. Ce n’è una, turgida, che aggira la caviglia. Mi pare che pulsi. È un piede corto, ma non lo direi tozzo. Compatto, forse.

La signorina Asperti si chiama Alice di nome. Alice è smilza. Possiede tuttavia un petto forte che i colleghi le ammirano apertamente. Lo ricopre con vistosi reggiseni, visibili anche sotto camicie e magliette. Si depila le ascelle. Usa un deodorante che profuma di limone. Non mi piace. È troppo pungente. Irene, la bella moglie del direttore, non si depila. O meglio, credo che curi molto le ascelle. Ha un piccolo cespuglio nero nero fitto fitto che pare proprio coltivato tanto è preciso e compatto. Nella buona stagione indossa abiti senza maniche e capita spesso in ufficio a prelevare il marito. Vaga tra le scrivanie con quella sua aria pensosa, incurante degli impiegati che la osservano di sottecchi. Alza le mani a sistemare i capelli. Non arriva mai laggiù vicino alla mia postazione e neanche mi storta un’occhiata. Io, però, non perdo nulla di lei. Chissà che tipo di deodorante usa. Non è mai accaduto che mi si avvicinasse a meno di due metri, ma io sono convinto che il suo deodorante ha un delicato profumo.

La signorina Asperti ha i capelli castani. In genere li porta raccolti. A volte ne fa una coda ballerina, oppure lascia che le cadano molli sulle spalle. Una riga diritta li spartisce fino in fronte. La pelle del viso è chiara, ma gli occhi appaiono di un colore che definirei spento, comunque difficile da definire. Tranne quando lancia occhiate che vogliono trasportare qualcosa di malizioso. Allora è un lampo che brucia la faccia. Ha il naso sottile e labbra carnose naturalmente rosse. Vita fine e fianchi larghi. Sebbene scarne, le gambe sono lisce e regolari. Non la trovo affatto brutta.

Sto in letto da mezz’ora con un cerchio alle tempie che rifiuta di andarsene. I soliti esercizi facciali non sono riusciti a scioglierlo. Mi sento irritato. Con chi o per che cosa non saprei dire. Ho caldo alle gambe, da non riuscire a tenerle ferme sotto le lenzuola. Forse il libro che ho tra le mani è parte in causa. L’ho acquistato oggi. Mi ha tradito il titolo. Mi ha tradito anche la recensione televisiva di qualche giorno fa che mi ha spinto a comperarlo. L’argomento potrebbe essere interessante, ma l’autore usa un linguaggio pieno di oscenità. Il turpiloquio va di moda oggi. Pare che sia un ingrediente del successo. Lo trovo intollerabile. Tuttavia accade anche a me di usarlo quando sono agitato. Non è che pronunci parolacce udibili da terzi. Ci mancherebbe! Le penso soltanto. Mi si formano chiarissime in mente e non c’è sinonimo pulito che valga a rimpiazzarle.

Adesso il caldo pare aumentato. Sotto i piedi nasce un fastidioso formicolio. Ingollo l’ennesimo bicchiere di latte freddo bello pronto sul comodino. E arriva, puntuale, la spinta diarroica! Mi precipito in bagno, velocissimo. Sento che scarico in un secondo tutto quello che tenevo dentro da stamattina. Ora me ne esco dal bagno leggerissimo. Riguadagno il letto. Mi distendo e il sonno arriva lesto. Le dita si rilasciano oltre i bordi. Il libro crolla a terra, ma non mi va di raccoglierlo. Le palpebre calano dure sopra gli occhi.

Fra i romanzi di  Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).