Benedetto sia colui che attende la svolta nel cuore di un viandante”. Non è facile dimenticare questa frase abbagliante, che sembra strappata dal Libro dei Salmi e invece è nascosta come una perla nell’ostrica dentro Book Of Mercy, il piccolo libro della misericordia che Leonard Cohen ha scritto più per se stesso che per il suo pubblico. Non è facile dimenticarla, soprattutto adesso. Il 7 novembre 2016 si è concluso il racconto del cammino terreno di questo viandante, instancabile nella sua ricerca (poetica quanto spirituale) portata avanti attraverso tutte le stagioni della vita. Ascoltando in You Want It Darker (l’ultimo suo lavoro discografico) le 8 canzoni del consapevole addio, la tentazione è proprio quella di ripercorrere tutte quelle stagioni: dall’infanzia in una famiglia ebrea benestante di Montreal, ai primi traumi (anzitutto la morte del padre); e poi via via, lungo la sua incostante carriera di studente. Lenny è piuttosto discontinuo negli studi, ma in compenso si occupa di teatro, forma un gruppetto di musica country, scrive i primi versi più che altro per conquistare le ragazze («Quando non funzionavano, mi rivolgevo a Dio»). Scopre la poesia di Garcia Lorca, dei beatniks americani, del canadese Irving Layton che diventerà il suo mentore; e poco dopo la laurea in letteratura, pubblica 22enne la prima raccolta di versi: Let Us Compare Mythologies. Riceve riconoscimenti e sembra destinato al successo come letterato, ma non ha dimenticato la musica. Come gli antichi aedi, sente il legame indissolubile tra parole e suoni. Ancora da Book Of Mercy: “Dissi alla mia volontà: vieni, prepariamoci ad essere toccati dall’angelo della canzone”. Eppure, nel mondo discografico esordisce solo nel 1967 (a 33 anni suonati!) con il bellissimo Songs Of Leonard Cohen, che suscita scarso entusiasmo. Meglio andrà il secondo album, Songs From A Room (‘69), da cui inizia l’ascesa verso la leggenda dell’artista di culto, raffinato, autoironico, gran seduttore.
Un ego straripante ma tormentato e l’ossessiva ricerca di un’esistenza appartata (dall’isola greca di Idra al monastero Zen): tutto nella sua biografia testimonia le contraddizioni di un percorso alla disperata ricerca di una libertà totale dell’uomo e di una verità interiore, non raggiungibile in questo mondo se non attraverso il “miele della poesia”. Nei giorni dell’84 in cui registra Various Positions (che qualcuno ha definito il corrispondente musicale di Book Of Mercy) l’artista canadese, di una pignoleria esasperante, è pieno d’incertezze riguardo al testo di Hallelujah dove il protagonista è il Re degli ebrei Davide che canta le lodi del Signore ma è anche follemente attratto dalle nudità di Betsabea. Le cose vanno per le lunghe e i costi dello studio di registrazione lievitano… Poi, all’improvviso, arriva l’illuminazione: capisce che non è necessario insistere più di tanto sui riferimenti biblici, perché, a dispetto della sua grande cultura ebraica, lui vuole scrivere un Hallelujah laico. Ed è fin troppo chiaro che in Davide è lui stesso a specchiarsi. Prigioniero in un vortice d’inconciliabili conflitti, non gli resta che abbandonarsi alla misericordia del Dio sconosciuto e magari cantare anche un verso come questo: “Guarda, io non ci capisco un fottuto niente, Hallelujah!”. A questo proposito c’è un aneddoto leggendario (chissà se vero?) di un incontro fra lui e Bob Dylan: 2 cantautori fuori dagli schemi, entrambi di sangue ebreo, entrambi di poche parole, ma legati a distanza da una reciproca, profonda stima. A un certo punto, Bob gli chiede: «Per curiosità, quanto tempo ci hai messo a comporre Hallelujah?». Leonard risponde: «Oh, solo per la parte centrale 2 anni». «2 anni?», gli fa eco Bob attonito. Poi Leonard fa la stessa domanda per I and I. E Dylan risponde: «Un quarto d’ora». Cohen quasi cade dalla sedia. Poi scoppiano entrambi a ridere. Certamente avevano tante cose in comune, ma anche una spiccata diversità di carattere. Molto ormai si sa del temperamento di Dylan, dei suoi modi imprevedibili e talvolta brutali. Ma forse è assai meno chiaro al grande pubblico quello di Cohen, nascosto dietro una parvenza di normalità, di eleganti abiti grigi o scuri, di compassata autoironia, di modi da gentleman. Lui è in realtà un appassionato lavoratore della parola che appare e scompare dalla scena pubblica, che coltiva il suo mito con abilità, rigore e distacco, ma che soprattutto cerca (febbrilmente, privatamente) la sua pace interiore.
L’oscillare continuo fra misticismo e sensualità, amor sacro e amor profano, è sempre stato il nucleo ardente della sua poetica. E questo nucleo ha proseguito senza mai spegnersi fino agli ultimi lavori discografici, dove la sua voce sempre più vetrosa declama più che cantare le nuove canzoni, mentre la musica si piega umilmente al servizio dei versi. Forse per il suo desiderio di starsene in disparte, diceva di essere soltanto un poeta minore. Ma cosa vuol dire poeta minore? Minore di chi? E qui si potrebbe riaprire la disputa ormai stucchevole (dopo il Nobel a Dylan) fra l’aristocrazia dei poeti su carta e la vocazione popolare di quelli su disco. Per favore, evitiamola! Anche perché Leonard Cohen apparteneva a entrambe le schiere. Le sue rime a volte difficili, ma sempre puntuali e sorprendenti come quelle di una filastrocca infantile, sono in sostanza più o meno le stesse: sia nelle pagine stampate, sia nelle canzoni. E vanno quasi sempre a segno, colpiscono dritto al cuore… Nell’album Old Ideas (2012) ammette di non sentirsi ancora pronto per chiudere il suo racconto di viandante: “ancora non proprio / prima raggiungiamo il fondo…”.  Poi pubblica Popular Problems, dedicato allo scomparso Maestro Zen Roshi. Infine You Want It Darker: e proprio nel brano che dà il titolo all’album il segnale è certo, inconfondibile: “I’m ready, my Lord” (Sono pronto, mio Signore”). A giugno se n’era andata Marianne, l’antica musa dell’isola greca; e Lenny ha detto che l’avrebbe raggiunta presto. Ma a tutti noi che siamo ancora qui, che cosa ha lasciato? Il suo dono è più di un ultimo disco, più di un testamento spirituale: è la possibilità di cercare all’infinito nei suoi versi più oscuri, di frugare nei misteri dell’esistenza.